Percorro un gelido corridoio, in fondo una sola porta. È chiusa. I passi sono incerti, il timore si fa spazio nell’animo, lo smuove con l’inquietudine.
Apro lentamente la porta e la richiudo alla mie spalle come se potesse volatilizzarsi tutta l’essenza che impregna la stanza.
Non c’è nessun arredamento, solo pareti lisce d’argento.
Le pareti sono interamente ricoperte da specchi, specchi rotti. Innumerevoli frammenti che ripetono la mia immagine da mille prospettive.
Innanzi a me un corpo esile da cui sfilo le vesti. È sorprendente come un corpo così piccolo possa contenere un’anima, reggere il peso dell’esistenza. Le ossa sporgono in molti punti, sembrano affermare la loro durezza, la voglia di contrastare ogni intrusione esterna, altre sembrano voler strappare la pelle e rivelare un’inutile impermeabilizzazione.
Mishima diceva che i corpi magri rivelano un spirito molto sviluppato; il mio, voglio che continui a nutrirsi, svilupparsi e donare energia.
Non credo all’esistenza di alcun dio, non ho la necessità di confortarmi in un’immagine di infinità bontà e di consolazione. Percepisco però dentro di me, in un profondo difficile da toccare, un’anima. È un’anima che piange, tace, vomita parole come un vulcano erutta la sua lava, raramente ha gioito.
Ho fatto della carta il greto per le sue parole.
Spesso mi rifugio nella mia solitudine, immergendomi in un mare di assenza di contatti fisici. La vicinanza di sangue umano non mi riscalda, sono le essenze a scaldare l’anima, a permettere a flussi energetici di sfiorarsi, toccarsi. Se percepisco intorno a me persone avide di energia altrui, mi discosto, non sono più disposta a farmi turbare dall’egoismo, a farmi ferire dalle sue lance. Preferisco chiudere ogni rapporto, profondo o meno che sia stato. E non torno mai indietro, mai.
È una necessaria forma di sopravvivenza.
Mi sono lasciata indietro amici, parenti, e un amore. Ho trasformato ogni figura in statua di sabbia, il vento le ha distrutte portando cos’è ogni granello. Solo i granelli rossi porpora non sparisco via, sono ancora intrisi del mio sangue, troppo pesanti per volteggiare nel vento come spore.
Ho provato a coprire il sapore amaro di un addio con quello nettarino di baci già conosciuti.
Ogni tentativo è stato vano.
In me dominano spirito e mente, il corpo non ha la stessa fame.
Talvolta l’uomo si spoglia di ogni razionalità per indossare atavici istinti. È come scavare dentro di sé ed estirpare l’anima. Solo angoscia e sensi di colpa colmano quel vuoto.
Ho giocato mostrandomi talvolta crudele, cinica, ho provocato sofferenza dominando figure meno forti della mia. Il piacere che ne ho tratto è stato solo illusorio, come lo era la dura corazza da me indossata. Solo quando la mia luce ne ha incontrata un’altra dalle stessa intensità, si è sciolta la corazza. Le spine si sono trasformate in magnolie palpitanti e la pelle ha rivelato le reali escoriazioni della vita.
Non temevo più nulla. Neppure di mostrare la mia vulnerabilità.
Lo spazio siderale in cui ero immersa era meno gelido. Il tempo aveva cessato di esistere, vivevo nell’atemporalità.
Basta poco nella vita per smettere di volere qualcosa, nella mia no. Se voglio qualcosa la seguo con perseveranza, non è importante quanto tempo occorrerà, fondamentale è realizzare la mia volontà. È una pulsione sempre forte, costante, vitale, è in grado di piegarsi solo di fronte la sofferenza altrui. Per non arrecare dolore scelgo la privazione, evitando così che uno squarcio faccia sanguinare per sempre l’anima di egoismo.
Ho trascorso abbastanza tempo priva di vestiti davanti alle mie immagini, infreddolita rivesto il corpo e vado via, lontana dagli specchi.
18 Ottobre 2010 - h. 00:43
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