In questi giorni ho ripensato ad pomeriggio in particolare e ad una voce al telefono che legge un brano di uno dei miei libri preferiti...
Abdul mi tirò su la camicia all’altezza della vita e mi aprì stizzosamente la patta abbassandomi i calzoni sino alle ginocchia. Vidi il suo cazzo che nell’attesa si curvava e si gonfiava nei pantaloni, e poi mi fece voltare e stendere bocconi. Era una di quelle logore tavole che si usano come tagliere, spessa una trentina di centimetri e consumata dal continuo tagliare e affettare che hanno creato un profondo e ricurvo declivio. Aspettavo avidamente, e gridai quando la sua mano scese, più e più volte, a intenerirmi il culo con schiaffi forti e selvaggi. Poi attraversò la stanza di fronte a me tirò giù da uno scaffale una lattina di olio di mais. Sentii freddo alla pelle quando me lo spruzzò addosso dall’alto e allora mi unse le natiche e la fessura, spingendovi dentro un dito vigoroso e risoluto. Udii il fruscio eloquente dei suoi abiti, i pantaloni che s’afflosciavano sul pavimento appesantiti dalle chiavi che aveva in tasca. Mi scopò con un’eccitante tranquilla veemenza; dando a ogni lunga spinta, una volta penetrato sino alle palle, un’ultima deviazione che mi faceva gorgogliare di piacere e grugnire di dolore, mentre il mio cazzo sfregava il bordo incrostato e scheggiato della tavola.
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