Quando ero bambina trascorrevo la maggior parte dei pomeriggi a casa dei nonni.
In estate la nonna montava una tenda per schermare la porta d’ingresso dagli insetti; io ne stringevo due lembi fra le mani ed oscillavo come una scimmia, pur ricevendo i rimproveri non riuscivo a smettere dal dondolarmi. Quindi un giorno mio nonno decise di costruirmi due altalene, una l’avremmo montata sulla porta di casa, la seconda in campagna.
Ero emozionatissima. Non solo mi costruì le altalene promesse ma anche una fionda.
Ripenso a tutti i pomeriggi passati in campagna… Appena arrivati la nonna apriva le porte di metallo blu e mediante due ganci di ferro montava l’altalena. Crescendo ebbi la soddisfazione di agganciarla da sola alla porta.
Su quell’altalena mi sentivo libera, una sensazione che probabilmente mi faceva provare il luogo stesso. Era come se andando incontro all’aria le particelle di cui sono composta potevano disgregarsi, dissolversi, rendermi un tutt’uno con essa… e poi aprendo gli occhi, dinnanzi a me, distese di erba dorata dal sole ed il boschetto, che con i suoi alberi mi appariva misterioso ed impenetrabile.
Rabbia.
Sono un cane furioso, con museruola, guinzaglio e catena inchiodata al muro. Non c’è nessun padrone, mi sono inchiodata da sola affinché nell’impetuosa corsa non sbranassi nessuno, infettandomi la bocca, lo stomaco e l’intestino con melmosi brandelli di carne umana.
Velo gli occhi iniettati di sangue e digrigno i denti al voltarsi delle immonde creature.
Non mostro la rabbia ma un sorriso raggiante che brucia chi mi sta di fronte.
Cammino sull’asfalto delimitato da lampioni che vogliono accecarmi, la pioggia sottile penetra fra la trama del tessuto, aghi di acqua scendono fin nelle ossa.
Un rumore mi distoglie dai pensieri, sono i passi di qualcuno, proprio dietro le mie spalle. Mi volto camminando e con me anche l’ombra, nient’altro che desolazione notturna; continuo a camminare mutando la mia andatura e con essa mutano i passi dell’invisibile creatura.
Proseguo per la via del ritorno concentrandomi unicamente sui passi che seguono i miei come il doppio battito del cuore.
Di colpo i passi si arrestano, ed ora sono io ad emularli, costretta da un peso superiore al mio corpo.
Pochi minuti e sarò a casa, ma ho l’impressione che il tempo si dilaterà.
Una sensazione di angoscia mi assale, ho la nausea, una sfera plumbea prende il posto del diaframma.
Mi trascino per la strada e finalmente giungo ai piedi del palazzo ormai addormentato. L’appartamento mi appare come un luogo salvifico.
Tolgo i vestiti fradici e faccio una doccia bollente, ma neppure l’acqua pulita può togliermi la terribile sensazione che mi porto addosso.
Gli occhi si sciolgono in un pianto, adese al corpo non vi sono gocce d’acqua ma innumerevoli lacrime che trasudano dall’anima.
Ed ecco l’immagine del mio corpo nudo riflessa allo specchio; mi avvicino per guardarmi meglio, per scrutarmi… la pelle somiglia alla corteccia di un albero, ha perso la sua luminosità, le labbra si sono assottigliate. Confusa e terrorizzata scaglio un oggetto contro specchio e l’orrenda immagine, in mille frammenti irregolari, si ripete innumerevoli volte ai miei occhi. Quella donna non posso essere io… non voglio esserlo… tutte le angosce e le paure trasformati in mefistofeliche creature si sono ancorati alla pelle, alla carne, succhiandone ogni essenza vitale. Catatonico il corpo si fa spettatore della lotta quotidiana.
Potrò mai liberarmi e dissipare un nuovo seme da cui rinascere?
Se fossi un elemento sarei il fuoco
Se fossi un colore sarei il viola
Se fossi una pietra sarei un’ametista
Se fossi un pianeta sarei Marte
Se fossi un senso sarei il tatto
Se fossi un libro sarei La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo
Se fossi un momento della giornata sarei la notte
Se fossi una condizione atmosferica sarei la pioggia
Se fossi una stagione sarei l'autunno
Se fossi un sentimento sarei la tristezza
Se fossi un animale sarei un elefante (hanno una tristezza infinita negli occhi)
Se fossi uno stato sarei l'India
Se fossi un tessuto sarei il lino
Se fossi uno strumento musicale sarei un violino
Se fossi un albero sarei un salice
Se fossi un materiale sarei l'ebano
Questo ti farà soffrire, mio povero amore. Il nostro pic nic è finito; la strada è buia, piena di buche, e sull'auto il bambino più piccolo comincia a sentirsi male. Un povero sciocco ti direbbe: devi essere coraggiosa. Ma qualunque cosa io possa dirti per farti animo o consolarti sarà come una minestrina insipida - tu sai quello che voglio dire. Tu l'hai sempre capito. La vita con te è stata sempre incantevole - e quando dico "incantevole"intendo canti e voli e viole, e quella morbida, rosea "v" nel mezzo, e quelle sillabe sulle quali si curvava indugiando la tua lingua. La nostra vita insieme è stata allitterativa, e quando penso a tutte le piccole cose destinate a morire, ora che non le possiamo più condividere, sento come se fosssimo morti anche noi. E forse lo siamo. Vedi, quanto più grande era la nostra felicità, tanto più sfumavano i suoi bordi, come se i contorni si sciogliessero, e ormai essa si è dissolta del tutto. Non ho smesso di amarti; ma qualcosa è morto in me, e nella nebbia non riesco a vederti... Questa è tutta poesia. Io ti sto mentendo. Vigliacco. Niente è più vile di un poeta che mena il can per l'aia. Credo che tu abbia intuito come stanno le cose: la solita dannata formuletta, "un'altra donna". Con lei sono disperatamente infelice - ecco, questo almeno è vero - E penso non ci sia molto altro da aggiungere su questa vicenda.
Non posso fare a meno di pensare che nell'amore ci sia qualcosa di essenzialmente sbagliato. Tra amici si litiga o si ci perde di vista, e anche tra parenti stretti, ma non c'è questo spasimo, questo pathos, questa fatalità che sta attaccata all'amore. L'amicizia non ha mai l'aspetto di una condanna. Perchè, cosa succede? Non ho smesso di amarti, ma poichè non posso continuare a baciare il tuo caro, pallido volto, dobbiamo lasciarci, dobbiamo lasciarci. E perchè? Perchè l'amore è così misteriosamente esclusivo? Si possono avere mille amici, ma si deve amare una sola persona. Non è il caso di parlare degli harem: io sto parlando della danza, non della ginnastica. O si può forse immaginare un portentoso turco che ami ognuna delle sue quattrocento mogli come io amo te? Quando dico "due", ho già cominciato a contare e non vi è più limite. Esiste solo un numero vero: Uno. E l'amore, a quanto pare, è l'esponente migliore di questa unicità.
Io non so se Dio esiste. Ma se esiste davvero, allora deve avere una buona scusa.
- Woody Allen -
Petra von Kant è una famosa ed eccentrica stilista; appare una donna forte, distaccata, a tratti sprezzante.
Di lei si sa ben poco e tutto allo stesso tempo.
Dopo un recente divorzio vive con Marlene, una segretaria schiavizzata, taciturna e remissiva ad ogni ordine. Ma è come se Petra fosse sola.
Un giorno conosce Karin e se ne innamora. Tutto si ribalta, adesso è Petra colei che viene bistrattata, usata per il suo potere, sia economico che lavorativo. Crolla la maschera, quel che rimane è una donna sola e fragile, fragilità che sembra riflettersi anche sul corpo scarno. Implora Karin per un po’ d’amore, ma anch’ella, dopo averne approfittato, la abbandona per tornare con il marito. Dalla scena scompare temporaneamente il letto. La stanza è vuota e desolante.
Piangente e distrutta per un altro abbandono Petra muta l’atteggiamento nei confronti di Marlene, apparsa sempre in secondo piano, anche nella collocazione scenica. La donna, posiziona la valigia di fronte il letto di Petra, prende le sue cose e va via.
Ho la nausea. La luce mi buca gli occhi. Il pavimento sembra inclinarsi, temo di cadere. Mi ritiro come un'anacoreta. Ritorno fra le mie pareti.
Spunta non appena io esco dalla doccia, scherzoso e affascinante; io mi stringo a lui, completamente nuda - la mia pelle ancora umida contro le gocce di pioggia del suo giubbotto di pelle. Rabbrividisco.
Mi intima di non rivestirmi.
Mi ordina di mettermi al centro della stanza a quattro zampe, appoggiata sui gomiti, con le cosce un po' aperte. Lancio uno sguardo di sbieco per vedermi nel grande specchio. Grottesca e penosa. Ho l'impressione di avere i seni penduli della lupa di Roma.
Con alcune corde che ha portato, mi lega per costringermi in questa postura: le braccia unite alle ginocchia, le caviglie bloccate al termosifone due metri più in là, il collo stretto da un'altra corda che mi ammanetta anche i polsi, ed è fissata ai piedi del letto. Un'altra corda molto stretta fa un doppio giro sopra e sotto i miei seni facendoli schizzare come mani tese fra sbarre di canapa.
Mi lascia appena il tempo di gettare una rapida occhiata di sbieco nello specchio, per farmi apprezzare la confezione regalo, l'oggetto che sono diventata, poi mi benda gli occhi.
Mi passa dietro e mi unge con vaselina il sesso e l'ano - dentro e fuori. I suoi gesti hanno una precisione clinica, e non mi provocano nessun tipo di eccitazione. Nient'altro che terrore.
Sento una serie di leggeri scatti metallici, poi intravedo da sotto la benda il lampo di un flash, sento il rumore ostile dell'apparecchio che viene riarmato.
Ho tenuto quelle foto, e ancor oggi non posso rivedere senza provare un'emozione indicibile l'immagine di quella ragazza anonima, con una benda nera sugli occhi, e la carne stretta da nodi assurdi, sottomessa a ogni aspettativa, con il cuore in gola - l'immagine stessa dell'angoscia.
Sono lì accovacciata per terra, le chiappe inarcate per la posizione che mi ha costretta ad assumere. Le corde mi segano la pelle. Sento la porta richiudersi. Chiamo, nessuna risposta. La mia voce mi sembra strana, come inspiegabilmente lontana.
Aspetto a lungo, e le ginocchia iniziano a farmi male. Le corde sono strette e tese e non mi permettono nessun movimento. Riesco a malapena a respirare. Cerco di farmi scivolare la benda dagli occhi sfregando la tempia sulla spalla, ma invano.
Di nuovo la porta. Rumore di passi. Ma non è solo. Ho la certezza che siano almeno in due.
Un groppo enorme nello stomaco. Le mani fradice sul pavimento.
Due mani si artigliano ai miei fianchi, un cazzo mi inforca, rapido, preciso, e arriva a sbattere sul fondo della mia vagina - non posso impedirmi di urlare.
Lampi di flash si insinuano sotto la benda. L'uomo si agita nel mio ventre. Quasi subito qualcuno mi solleva la testa - la corda mi sfrega la nuca - ed un altro cazzo mi forza le labbra.
Nausea.
Lo scatto della macchina fotografica.
Non entrerò nei dettagli. Mi ha tenuta legata così per tutto il giorno - liberandomi solo una volta, ma senza sbendarmi, per portarmi a far pipì, poi mi ha nuovamente legata. Ha fotografato senza tregua, con inquadrature molto vicine che non permettevano di identificare il soggetto; solo le mie natiche, la mia pancia e la bocca, e poi la pancia, i fianchi e il cazzo di quelli che mi penetravano.
Aveva dovuto imporre alcune regole: una volta installati, dovevano eiaculare là dove si erano ficcati. Quel giorno ho bevuto più sperma di quanto ne avessi mai inghiottito in tutta la mia vita. Sono stata sodomizzata ripetutamente. Può darsi che anche questo facesse parte del rito. Solo in pochi hanno preferito il mio ventre, ma sono stati comunque abbastanza numerosi perché sentissi, ben presto, lo sperma colarmi sulle cosce.
Chi erano? JP mi ha mostrato le foto due giorni dopo: belle stampe brillanti in 13x18, con i colori netti e chiari di una pellicola a grana fine. In tutto, ventitré uomini mi avevano penetrata quel giorno. Peli ricciuti su pancioni cascanti, o muscoli tesi. Pochi i biondi. Uno di loro li ha completamente grigi. I cazzi sono di tutte le forme e le misure. Quattro si protendono da ventri piatti ed imberbi, senz'altro di adolescenti, e tutti hanno scelto la mia bocca. Altri sono ricurvi come banane, o contorti come tronchi, o magri e granulosi come salsicce di Auvergne, o corti e tozzi, grossi frutti purpurei esplosi sul ramo...
Nei film o nelle riviste porno, si vede sempre uno stesso modello di uccello, di dimensione quasi costante, come se fosse stato imposto uno standard - un po' come i seni ipertrofici, iperrealisti, delle star femminili dell'hard.
E poi cazzi di tutti i colori. Uomini dalla pelle molto scura, il cui glande violaceo viene a baciare le mie labbra. Un asiatico con i peli appena ondulati. Tre neri, molto neri - tutti e tre nel culo.
C'è anche qualche foto scattata appena l'hanno sfilato, o nell'intervallo fra due visite. Primo piano sul mio viso, sempre inondato di lacrime - tutti quei porci hanno tracimato dalla mia bocca. Primo piano sul mio culo, il buco aperto, allargato, ansante come la bocca di una carpa, incredibilmente dilatato. Il sesso sbadiglia come una conchiglia che abbia rinunciato a custodire le sue perle - lacrime di sperma, fissate dallo scatto, stillano da ogni mio buco.
Odore di carne e di morte
sangue
vita che pulsa nei nostri intestini.
Nulla di ciò ci sconvolge.
L’orrore è dentro ogni uomo.
Solo l’amore ci rende attoniti,
e l’amore non è umano
Il corpo oscilla, tutto intorno non vi è luce. Acquisto la consapevolezza che il corpo fisico sta interrompendo il sonno. "Devo tornare, altrimenti morirò", dico all'altra me tramite un codice invisibile.
Viaggio ad altissima velocità all'interno di un tubo, un granello di polvere risucchiato da un grande aspirapolvere.
Avverto un colpo alla nuca, son desta. L'anima è tornata dentro le sue vesti.
Male, solo Male...
L'Anima affranta urla come un demone all'inferno.
Affondo le unghie nella carne,
inizio a starpparla,
tra le mie mani solo carne e sangue...
Lacrime scendono dal viso e bruciano le ferite con il loro lento passaggio...
L'Anima è ancora lì,
dentro il mio cuore,
tace ogni contrazione
ma l'Anima continua ad urlare...
Di fronte a me un Angelo
Lunghe dita stringono una lama
Il suo sguardo mi incanta
Una benda di piume copre i miei occhi.
Tante sottili e profonde vie vengono tracciate,
Respira sulla mia carne,
Dolcemente
La benda cade
Sono vestita di sangue.
Scorrono lacrime dagli occhi e lui ne segue il corso con la lama.
Si china e lecca le ferite
Asporta il sangue con la lingua
Le sigilla con la sua saliva.
Come un chirurgo ha sugellato tutto.
Mi bacia.
Un'esposione scuce le ferite
Da esse emergono gemme iridescenti.
Mi bacia ancora una volta.
Le gemme si schiudono,
portano ai rami piccoli neri feti annuncianti la mia morte.